La guerra antisemita contro l'Occidente
7 ottobre 2023 Israele brucia
Informazione Corretta, il nuovo video di Fiamma Nirenstein

Il Giornale, 10 maggio 2025
Il pericolo ormai è presente e chiaro. Invece di ostentare la sua cultura antisraeliana sventolando un volumetto sulla storia di Israele di un suo classico squalificato odiatore, Ilan Pappe, sarebbe bello che la signora pizzaiola che ha buttato fuori i turisti israeliani, si informasse su un altro argomento, cioè le conseguenze dell’odio di massa per gli ebrei nella storia. Il tratto terrificante della vicenda, è che la pizzeria della signora, invece di essere chiusa, è diventata un attraente centro di odio antisraeliano, e numerose istituzioni e autorità non solo non condannano, ma sono graditi ospiti. Adesso, una domanda pesante: come accade che nella storia si scateni la caccia all’ebreo, fino alla Shoah? Ci se lo chiede spesso guardando indietro nel passato tedesco. Oggi però, si dice, in Italia, in America, nel mondo… no, impossibile, non diciamo sciocchezze. Ma mentiamo a noi stessi. Le masse odiatrici ormai sono scatenate. L’odio mortale non è un fenomeno d’elite; quando si marcia urlando morte a Israele, genocida, razzista, e le autorità poi concordano, il pericolo è consistente. Daniel Goldhagen nel suo famoso I volenterosi carnefici di Hitler fa i conti: l’odio antisemita omicida fu appannaggio di decine di milioni di persone, l’eccidio nazista non è solo delle SS, ma di un popolo che sembrava normale. La Polizia, la gendarmeria, uomini e donne nelle amministrazioni e istituzioni civili, nelle aziende, nelle scuole, università, ospedali… il numero di collaborazionisti oggi includerebbe parte di chi lavorava nell’informazione, nelle istituzioni umanitarie... la gente, i proPal di oggi. Siamo sull’orlo di un attacco di massa al popolo ebraico sulla base di un mucchio di bugie travestite da diritti umani. “Il numero di quelli che si resero complici o che erano al corrente, è sbalorditivo”, dice Goldhagen. E qui un pubblico enorme è stato imbrogliato sul fatto che gli ebrei siano coloni e non, senza possibilità di dubbio, gli unici indigeni di Israele; non sa che dozzine di accordi internazionali fino all’ONU nel 1948 ne stabiliscano la legittimità e i “territori” sono frutto non desiderato di guerre di aggressione arabe; che Gaza è sgombera dal 2005; che gli arabi cercano di eliminare gli ebrei in base a convinzioni religiose.
La folla non si interroga su parole gettate a sproposito nella mischia, come genocidio e apartheid. Un numero spropositato è oggi pronto a dare la caccia agli ebrei chiamandoli sionisti, o con la scusa di Netanyahu, di cui non sanno niente. La vicenda della pizzaiola ha avuto tre fasi: butta fuori la coppia ebraica e israeliana; c’è un sussulto di vergogna istituzionale, è un gesto di odio antiebraico anche se lo chiami antisionista, e poi c’è la terza parte, quella in cui la Boldrini e una lista di personaggi istituzionali solidarizzano con la pizzaiola, coi ripensano e ritengono evidentemente che qui c’è del consenso da spigolare. E’ un classico: per i nazifascisti gli ebrei erano comunisti, per i comunisti fascisti, per i capitalisti accattoni di shtetl, per Marx, capitalisti... adesso sono sionisti, vogliono la loro casa, ma che vogliono questi ebrei, brutti nazionalisti... e pretendono persino di non essere fatti a pezzi tutti i giorni da missili e attacchi terroristi, ma tu al 7 ottobre ci credi? I protetti di questi difensori dei diritti umani uccidono gli omosessuali e mutilano le donne mentre la pizzeria, nel consenso istituzionale, diventa un hub di odio. Mentre Israele combatte per la propria sopravvivenza, l’Albanese l’ha trasformato in tana ideologica come “Presa Diretta” su Rai 3: tre coraggiosi, Giovanardi, Prado e Volli, hanno attaccato le balle e la diffamazione proposte come reportage, ma l’USIGRAI e FNSI li condanna invocando il diritto all’informazione. Gli ebrei sono sotto un assedio di massa in tutto il mondo: il premio Pulitzer va a un palestinese Mosab Abu Toha che denigra le vittime e i rapiti del 7 ottobre; si insiste ovunque per l’ “aiuto umanitario” a un’organizzazione che tiene gli ostaggi a morire sotto terra; si chiede “pace” intendendo la resa di Israele; a Milano si discute se illuminare Palazzo Marino per Gaza, sostenendo, solo coi numeri di Hamas, che ci sono 52mila morti di cui 13mila bambini; a Ragusa e Catania si beve Gazacola. Nuova bevanda per i volenterosi carnefici del nuovo odio per gli ebrei.
mercoledì 7 maggio 2025
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Video di Fiamma Nirenstein in esclusiva per IC a cura di Giorgio Pavoncello
L'antisemitismo ribalta la realtà, sempre. Quindi trasforma sempre le vittime in aggressori e i colpevoli in innocenti, per dar sempre la colpa agli ebrei e a Israele. Anche nel caso degli aiuti umanitari a Gaza: si accusa Israele di voler affamare i palestinesi, quando invece il governo Netanyahu sta cercando un modo di dare cibo alla popolazione di Gaza evitando che Hamas lo rubi.
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Il Giornale, 06 maggio 2025
Territori, territorio... E' la parola magica dell’odio antisraeliano, quella che si coniuga con “occupazione” e anche con “colonialismo”. L’opinione pubblica internazionale al solito attacca invece di cercare di capire cosa sta succedendo a Gaza: ieri il Gabinetto di sicurezza ha approvato il piano che espande l’operazione dell’Idf a Gaza e prevede che dove l’Esercito arriva là resterà, secondo il vecchio dettato strategico per cui la conquista deve essere tenuta per vincere qualsiasi guerra invece di proseguire negli avanti e indietro che hanno caratterizzato 19 lunghissimi mesi di guerra. Il motivo per cui Israele terrà in mano spazi territoriali a Gaza è semplice, anche se enormemente estraneo a chi non è abituato a affrontare giorno dopo giorno il rischio di attacchi terroristici e missili.
La svolta definita dal Governo e dall’Esercito minaccia Hamas di perdere territorio, ciò che non ha mai fatto prima, e vuole tre risultati fondamentali: ottenere una resa di Hamas stretto in spazi ristretti, diviso dalla sua popolazione-scudo umano, che ha sempre sfruttato col più bieco cinismo per nascondere i suoi uomini e le sue armi. Israele infatti sposterà a sud in zone umanitarie, rifornite di cibo e generi primari, una parte consistente della gente di Gaza, e l’assedio intanto dovrebbe portare Hamas alla restituzione dei rapiti. La convinzione del Governo è che lo spazio per ottenere la restituzioni almeno di alcuni rapiti in cambio di una tregua dopo la quale si torna a combattere (era l’ipotesi Witkoff, l’inviato di Trump), si creerà solo con una forte pressione bellica, proprio come quella che portò all’inizio alla liberazione di decine di ostaggi. Dopo Hamas, non più costretto, ha seguitato a cercare di imporre una lunga, forse definitiva sosta per restare al potere. Israele non può accettare, vuole indietro gli ostaggi e la neutralizzazione di Hamas, quindi prova una nuova carta e cerca anche di risolvere il problema degli aiuti umanitari, cambiandoli completamente.
Lo Stato Ebraico ha fornito fino a marzo 600 camion di cibo al giorno (quantità molto maggiori al fabbisogno, conservate fino ad oggi) e poi ha fermato le derrate che finivano tutte in mano a Hamas o a bande violente. Adesso, mentre avvia la nuova campagna, Israele sta portando a termine con gli americani una strategia affidata a organizzazioni private o internazionali che consegni quantitativi minori, non per essere accumulate ma utilizzate. Non è facile tornare a Gaza mentre soldati ventenni seguitano a cadere. Ma l’indispensabile operazione è molto calibrata, non parte a tutta velocità, il suo sguardo attento è puntato sul viaggio di Trump in Medio Oriente: su Gaza il Presidente americano ha espresso mille opinioni. “Se non restituiscono i rapiti l’inferno si aprirà su Hamas”, poi il piano di ricostruzione, l’idea di gestire in proprio la Striscia, e poi anche “non si sta bene a Gaza, bisogna aiutare”. Dunque, dopo l’incontro coi sauditi, dove sarà per Trump Gaza nel disegno mediorentale? Come vede, in questo quadro, la promessa a Israele che l’Iran non possa mai completare la bomba atomica, mentre vanno avanti le trattative USA-Iran? Alla fine della visita, Israele capirà quanto i piani si intrecciano, e quanto invece deve contare solo su sé stesso. Intanto ieri inaspettatamente Trump ha invitato Erdogan, arcinemico di Israele e capo dei Fratelli Musulmani di cui Hamas fa parte, alla Casa Bianca. Il puzzle non è completo. Anche se Trump seguita a bombardare i Houty e in Iran si sentono molte esplosioni, di fatto Israele si mette in posizione per affrontare ogni evenienza. Hamas è comunque il nemico da battere adesso per la sua guerra di sopravvivenza, vicino e lontano.

Il Giornale, 05 maggio 2025
Quattro missili nel weekend avevano spedito tre milioni di persone (compreso chi scrive e famiglia) nei bunker, 27 missili piovuti in due mesi. Poi finalmente ieri agli Houthi è riuscito il colpo grosso: il residuo dei proxy iraniani, lontano 2mila chilometri, ha colpito il grande aeroporto internazionale, unica via di uscita aerea di Israele, snodo strategico fondamentale. Chi aspettava di imbarcarsi, accalcatosi nei rifugi, ha sentito il botto clamoroso. Il missile ha scavato un cratere inusitato vicino alle piste di atterraggio. Il traffico ha subito ore e ore di ritardo e cancellazioni che chiudono. È stato un miracolo che sia finita con otto feriti, colpiti da schegge volanti; altri in stato di choc sono stati curati. Parecchie compagnie aeree di nuovo hanno annunciato sospensioni più o meno lunghe dei voli. Israele ne vive: è un piccolo Paese occidentale nel mare magno di una grande area islamica, in parte ostile.
Gli occhi puntati su prossimi sviluppi sottendono sempre la stessa domanda mediorientale: sei ancora forte o finalmente indebolito dagli eventi? L’immediata riunione di gabinetto ha dato la risposta aspettata, gli Houthi hanno esagerato, Israele ha intenzione di non lasciare il contenimento del loro fanatismo che lo condanna a morte a fianco dell’Iran nelle mani di Trump: «Israele risponderà in un momento e luogo a nostra scelta, anche ai loro padroni del terrore iraniani» ha detto il Premier Netanyahu. Non è semplice, la richiesta americana di lasciar stare è nota, come quella di non anticipare mosse che possano infastidire una trattativa con l’Iran in stallo ma non conclusa. Israele non può muoversi secondo i suoi immediati interessi: deve tenerli tutti presenti, compreso il fatto che ci sono nel Governo americano anche voci contrarie a considerare un problema fondamentale l’intenzione distruttrice dell’Iran: sia Jd Vance sia Steve Witkoff che, si dice, Donald jr, il figlio di Trump, considerano eccessivo il legame con Israele a fronte dei programmi da Premio Nobel per la Pace del Presidente americano, e con loro si schiera un gruppetto di iperconservatori che non amano gli ebrei, come Tucker Carlson, commentatore tv che ce l’ha fitta con Israele ma frequenta Mar-a-Lago. Lo spostamento di Michael Waltz da Consigliere per la Sicurezza nazionale ad ambasciatore all’Onu rispecchierebbe una vittoria momentanea di questo gruppo, e deriverebbe soprattutto da una conversazione privata di Waltz con Netanyahu sull’Iran, che Bibi ha però negato.
Ma il sentimento pro Israele è prevalente, anche quando la linea del governo di Gerusalemme è quello di evitare qualsiasi cappio che lasci immaginare un nuovo 7 ottobre palestinese e internazionale: l’esercito, di fronte ai rifiuti di Hamas a trattare sugli ostaggi se non a condizioni impossibili come la permanenza al potere per anni, ha deciso per una nuova operazione importante. Le riserve sono da ieri in viaggio verso il posto di combattimento per la quarta volta, con sacrificio personale immenso. Il governo, fra le critiche delle famiglie dei rapiti che vorrebbero un cessate il fuoco totale, sostiene la determinazione a spingere Hamas in un angolo fino a costringerlo a ragionare sui rapiti.
Gli aiuti alimentari sono una parte di questa vicenda: dal 19 gennaio fino a marzo avanzato Gaza ha ricevuto 650 camion di aiuti al giorno, molto più dei 2/300 del fabbisogno. Da qui un surplus di cibo per gli ultimi due mesi che avrebbero evitato ogni pericolo di penuria nella Striscia se il cibo non fosse stato rubato da Hamas e usato per ricattare e sottomettere e per fare del cibo un nuovo elemento di biasimo internazionale affamando la gente. Il fine di Israele è un accordo internazionale che possa garantire che riaprire all’aiuto sia un mezzo per spingere a cedere gli ostaggi e non il contrario. Ma Hamas vuole una cosa sola: uccidere gli israeliani e quindi tenersi Gaza come sfondo geografico e logistico. Israele si accinge ad affrontare questo nuovo capitolo, la variante Trump è decisiva, anche se Israele sa che comunque non ha scelta: deve combattere da sola. E ieri ha di nuovo seppellito due ragazzi di 20 anni caduti a Gaza, il capitano Noam Ravid e il sergente Yaly Seror.

Il Giornale, 03 maggio 2025
C’è qualcosa di patetico nell’antisemitismo contemporaneo, quello che porta folle in piazza per la festa dei lavoratori a travestire Hava Nagila da inno pro palestinese; quello che i militanti della sacrosanta guerra per salvare dallo scempio la natura, a ignorare la devastazione doppia, fisica e morale, che porta su questa terra la distruzione delle foreste di Gerusalemme. E anche in quello che indica come libertà di opinione, di stampa, di ricerca, un programma come quello di Rai3 “Presa diretta”, la cui star è stata, senza contradditorio, un personaggio come Francesca Albanese. Il suo odio per Israele è un’etichetta del fallimento dell’ONU nella sua missione di pace.
Il rapimento della canzone “Hava Nagila” è un paradigma del senso di inferiorità dello schieramento proPal. Violenta una canzone che è storicamente l’inno sionista al ritorno in Israele, il cui testo invita gli ebrei alla gioia dopo tanto soffrire, che è stata usata milioni di volte per festeggiare la vittoria del ritorno a casa nella guerra, nella fame, nell’eroismo, e la fa diventare palestinese: “Free Palestine”, fa urlare su quelle note a una folla che così arruola nelle file dell’ignoranza, delle cifre inventate da Hamas, nel messaggio di odio contro Israele: i palestinesi diventano così gli ebrei, gli oppressi, mentre gli ebrei sono gli oppressori. Il rovesciamento arriva fino alla più paradossale fra le accuse, quella a Israele di essere nazista, ovvero genocida, e fa dei palestinesi, che dal 1948 perseguitano Israele col terrorismo, i perseguitati. La musica va, la folla si eccita, odia Israele e gli ebrei, e l’antisemitismo viene distribuito a pioggia sulle piazze che furono dominate dalle leggi razziali al tempo del fascismo.
E’ diverso da allora, per fortuna, l’esistenza dello Stato del popolo ebraico, lo Stato d’Israele, che insieme alla democrazia e all’esercito ha cresciuto anche le più belle foreste che mai il Medio Oriente abbia visto, le più folte e verdeggianti, un regalo al clima mondiale cui oggi le masse si appassionano, per cui protestano e esclamano: sempre, fuorché quando gli alberi sono quelli dello Stato Ebraico. Sorpresa: potremmo dire che gli “alberi ebrei” non contano per gli ecologisti, proprio come gli ebrei quando subiscono attacchi terroristi e missili sulle loro città ogni giorno. Israele ha cresciuto sul suo suolo dal 1900 250 milioni di alberi: è l’unico Paese al mondo ad aver concluso il ventesimo secolo con più alberi rispetto all’inizio del secolo. Nel 1948 circa il due per cento del territorio era coperto di alberi, oggi questa percentuale è giunta all’8,5. Nelle case di tutti gli ebrei del mondo si vedono le scatole di ferro che raccolgono fondi da consegnare al Fondo Nazionale Ebraico, al Kerem Kaiemet. Piantare un albero è una buona azione che anche le Scritture insegnano. Adesso, in due giorni di fiamme sulla cui origine si affollano sospetti, sono stati spazzati via quasi 2000 ettari di terreno, carbonizzati con i suoi ulivi centenari, i pini, le vigne. Zone storiche come Latrun, lungo la strada fra Tel Aviv e Gerusalemme, in cui gli ulivi hanno visto battaglie decisive quando gli ebrei appena scampati dalla Shoah hanno dovuto difendersi degli eserciti arabi che assaltarono lo Stato Ebraico appena nato, hanno subito il rogo devastante degli alberi. Erano stati curati proprio per battere i rischi della siccità e della desertificazione sempre dietro l’angolo. Nel 2000 uno spaventoso rogo ridusse il Carmelo in cenere e uccise 44 persone, durante la seconda guerra del Libano i missili degli Hezbollah hanno bruciato circa quattromila ettari nella disperazione dei coltivatori diretti. La tradizione di amore per la terra nasce col sionismo stesso. Ma che ne sanno le folle cui si insegna a odiare Israele. Il programma TV cui accennavo, oblitera che Israele combatta una guerra di difesa contro un nemico di crudeltà mai vista, la sua determinazione a fare a pezzi gli ebrei uno a uno, compreso i neonati, ignora i 58 rapiti di cui forse 24 sono ancora vivi in chissà in quali condizioni. Questo si diffonde alla tv: dati sui morti distribuiti dal “ministero della Sanità” di Hamas, ormai confutati da varie ricerche; si affonda nel tempo inventando un avvento colonialista di un popolo tornato senza armi, solo per lavorare e convivere, e che ha trovato sin dal 1948, solo rifiuti che ci si ostina a non vedere.
I palestinesi, non solo Hamas, vogliono distruggere Israele, non è diritto all’informazione quello che ignora la verità, è un gorgoglio antisemita che cancella l’ambizione ad essere parte della storia dei diritti umani: per questa storia, Hava Nagila non dovrebbe essere violentata, l’amore per la natura dovrebbe ricordare l’amore di Israele per gli alberi e correre in aiuto, il diritto alla verità dovrebbe bandire la menzogna senza contraddittorio… siamo lontano da tutto ciò, vicino invece all’odio più antico, quello per gli ebrei.

Il Giornale, 01 maggio 2025
Oggi Israele compie 77 anni, mentre la guerra lo tormenta e da ieri infuria un incendio vicino a Gerusalemme. È un rogo apocalittico, tutta la maggiore arteria che conduce da Tel Aviv a Gerusalemme è bloccata, i soccorritori nell’inferno del fumo e delle fiamme corrono da un’auto all’altra cercando se ci sono donne e bambini rinchiusi dietro gli sportelli bruciati. Israele combatte a mani nude senza aerei in volo, dai paesi amici, compresa l’Italia, arrivano i canadair pieni d’acqua dal cielo. Hamas (si capisce!) ha subito rivendicato la meravigliosa operazione di disturbo della festa dell’indipendenza nazionale. Forse non è vero che è riuscita in una tale impresa di orrore e morte come sua abitudine, ma tuttavia comunque sia avvenuto e chiunque sia responsabile, dai gitanti irresponsabili fino agli arabi criminali, tutte le grandi manifestazioni destinate a festeggiare dopo questi due terribili anni il riaffacciarsi alla vita sono state cancellate per estremo senso civico verso la popolazione che avrebbe dovuto gioire qualche ora dopo tanto dolore e tanta guerra.
Nel tornado che alza le fiamme, per la festa della vittoria sul destino di vittima predestinata, sulla fatica enorme nella ricostruzione della casa ancestrale in cui 30mila fra ebrei, arabi, circassi, drusi, beduini hanno dato la vita, Israele combatte adesso un’ennesima battaglia contro il fuoco e per ritrovare l’ottimismo. I martiri di cui si è revocata la memoria ieri erano soldati in servizio e civili aggrediti dai terroristi. Quasi bambini oggi combattono e muoiono come leoni per il Paese. Hanno lasciato alla fidanzata, alla mamma, al Paese, messaggi affettuosi, pieni di pace. Ogni biografia è un mondo di aspirazioni, una risposta all’assalto terrorista che crea un popolo orbato. Eppure i dati di questi giorni ci rivelano una verità speciale: il 91% degli israeliani, oggi in guerra di sopravvivenza e per gli ostaggi, si dichiara felice. Superando la rete di pregiudizi e di bugie sullo Stato ebraico (di cui un esempio è stato il preteso programma tv <CF201>Presa diretta</CF>, che ha destato una giusta protesta e poi una difesa populista che nega la chiara criminalizzazione nella presente ondata di antisemitismo) non sarà dunque arrivato il tempo di ascoltare Israele, nel giorno del suo compleanno? A Gaza, mi ha detto un soldato sul campo, se vuoi trovare le armi, vai diritto alla camera dei bambini, negli ospedali, nelle scuole dell’Unrwa, dove Hamas stipa i civili a scudo dei lanciamissili e dei suoi armati, là è la risposta al numero alto dei morti. Che, ormai è appurato, sono fasulli: l’unica fonte è Hamas.
Israele con avvisi, spostamenti, cibo e medicine, ha cercato di minimizzare ciò che Hamas ha pianificato, la morte dei suoi. Ma «noi amiamo la morte più di quanto voi la vita» è la sua politica, come la violazione di tutti i diritti: perseguita donne e gay, tortura i dissidenti. Come si può ignorarlo? Israele è il contrario. Per questo la gente è felice: il suo significato è a 77 anni, vita e democrazia. La proposta di condivisione è vecchia come i suoi anni. Criminalizzarlo non è informazione. Nadav Cohen 21 anni, volontario della Croce Rossa Israeliana ha scritto a Zeitoun dentro Gaza prima di morire sul campo: «Penso agli altri ragazzi, all’università, alle feste, mentre postano video Tik Tok, io sto a Gaza con un elmetto in testa e difendo il mio Paese. Non sapranno mai cos’è vedersi morire accanto un amico. Li invidio? Sì. Vorrei scambiare? Mai. Non gli succederà di riabbracciare la madre e sentirsi il ragazzo più fortunato del mondo, non sapranno cosa sono i compagni-fratelli, il cibo di casa, il tuo letto, la ragazza che ami, un momento di quiete». Nadav è l’esempio di cui tutti i giovani hanno bisogno, è il significato di Israele a 77 anni. Menzogna è il suo opposto. Israele ce la farà anche contro il fuoco. Ma quanta fatica se le bugie accompagnano ogni giorno il suo cammino.

Il Giornale, 24 aprile 2025
Quando nel 1958 morì Pio XII, Papa Pacelli, il cui silenzio sulla Shoah era stato discusso in lungo e in largo, già lo Stato d’Israele, l’Anti Defamation League e il World Jewish Congress oltre a molti altre istituzioni ebraiche, approdavano a posizioni dubbiose, meno dure, meno convinte della responsabilità della Chiesa nella tragedia di cui, per altro, oggi in Israele si celebra la memoria in ogni angolo dello Stato degli Ebrei, con Israele, gli ultimi sopravvissuti, 200mila in tutto il mondo, 120mila in Israele. La condanna del Papa si fece meno dura, ma restarono con la memoria il dubbio e la discussione. Così, su quello che un famoso titolo definì “Il Papa di Hitler” si sono elaborate formule graduate di responsabilità. Però la responsabilità si connette, poco da fare, alla responsabilità storica della Chiesa nelle molteplici persecuzioni antisemite culminate nella Shoah. Tutte hanno intessuto miti di criminalizzazione del popolo ebraico, secondo la teoria antisemita della sostituzione. Gli ebrei per i crociati, per la Spagna cattolica, per i Papi che rotolavano nella pece e nelle piume gli ebrei del ghetto, e anche i roghi, i pogrom dell’est Europa... la matrice cristiana è sempre stata chiarissima e patente. Per questo Papi grandi e convinti che l’amore per la libertà a fronte dell’autoritarismo fascista, comunista, islamista venga dalla forza della tradizione ebraico cristiana fecondata dalla storia dell’occidente greco, hanno avuto molta cura del rapporto con gli ebrei, quelli dispaorici, quelli dello Stato d’Israele.
Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, hanno pensato e agito per questo. Papa Bergoglio, con la sua provenienza latinoamericana, la sua passione per il tema dell’immigrazione mista a quella degli oppressi ha privilegiato il rapporto molto contemporaneo e politico, immediato, col movimento di massa che ha preferito i palestinesi allo Stato Ebraico nella schematizzazione corrente. Ha visto i palestinesi come oppressi, Israele come oppressore. Ma era un errore fatale anche se si capisce il perché: è da tanto tempo che questo avviene, dal 1945. L’ideologia che poi si è riversata nell’ONU, nelle ONG, nel movimento woke oggi, su suggerimento comunista all’inizio, e poi sessantottino ha creato una potente mitologia demonizzatrice. Ci sono grandi masse che scambiano i diritti umani con l’idea che l’Occidente sia colpevole, che vada vituperato e affossato, in nome di principi superiori. In nome dei poveri. Ma i poveri non sono là: i violenti lo sono. La Chiesa sa che il mondo ebraico, compreso quello israeliano, è oggetto di un attacco violento. E la sua responsabilità storica verso questa minoranza perseguitata è una stella polare anche teologica. Gli ebrei sono comunque “fratelli maggiori”, e non hanno “tendenze dominatrici” come ha detto una volta Francesco, né sono sospettabili di “genocidi”.
Francesco, suggerendolo ha pensato di servire gli oppressi, ma l’oppresso è Israele, su sette fronti diversi, dal 1948. E’ bene che il presidente Herzog abbia mandato le sue condoglianze, Israele è una nazione fra le altre, non importa se Hamas ha espresso il suo intenso dolore per la morte di Francesco, Israele sa che la Chiesa non appartiene a quello schieramento, né mai gli apparterrà. Sta con la libertà e la democrazia, come Israele e il mondo ebraico. I cattolici sono fratelli degli ebrei, il Vaticano fratello dello Stato ebraico in quanto occidentale. E’ giusto anche che il rabbino capo di Roma camminando le vie della città secondo le regole del Sabato, ritenga doveroso seguire il funerale. E’ gentile, è fair, è diplomaticamente consigliabile e sensato. La comunità ebraica che vive a Roma, è profondamente romana. In nessuna parte del mondo, un ebreo avvolgerà Gesù bambino nella mangiatoia in una bandiera con la Stella di David anche se Gesù era ebreo: nessuna appropriazione è legittima. Dovrebbe altrettanto dispiacere la menzogna evidente di un bambin Gesù avvolto nella kefiah, niente può essere, ieri ed oggi, più falso.
La fratellanza giudaico cristiana si basa sul valore della libertà. La prima libertà è quella di difendere la vita:bastava guardare le immagini terribili del 7 di ottobre, l’attacco degli zombie che urlavano “Allah hu Akbar”, mentre uccidevano gli ebrei per capire dove stava il bene e dove il male. Il funerale è un saluto, non costa molto dedicarne uno a quel Papa, ormai malato e stanco, sperando nella ripresa, presto, di un dialogo indispensabile. Sul bene, e sul male. Il rapporto fra Ebrei e Cristiani prescinde da qualsiasi Papa.

Il Giornale, 23 aprile 2025
Lo chiamano rivoluzione il sommovimento interno, la vertigine sotterranea continua che caratterizza la storia di Israele in questi lunghi mesi quanto la guerra su sette fronti. E’ una guerra sull’ottavo fronte contro Benjamin Netanyahu condotta da un vasto ambito di leader e di intellettuali anche di fama internazionale, e anche di soldati, che si ritengono offesi dal fatto che il modello Ben Gurion che ha creato tanti eroi liberali, soldati e contadini, studiosi di notte e di giorno alla difesa del confine, siano stati sostituiti per così tanto tempo da un leader certo di grande famiglia, di gravitas militare e intellettuale, ma di destra nella certezza che il popolo ebraico nel suo insieme, anche nella parte religiosa, abbia come compito principale soprattutto la difesa e lo sviluppo dello stato che compie 77 anni proprio in questi giorni e che è in pericolo di vita. La rivoluzione contro il primo ministro scelto da 11 anni dalla gente del popolo, dagli intellettuali, dai soldati, dagli economisti conservatori, da chi vuole riformare la struttura giudiziaria che è una bandiera della sinistra, ha trovato negli ultimi due giorni un nuovo capo determinato a guidare le folle dopo aver invece guidato per tanti anni i servizi segreti dell’interno, lo Shin Beth. Ronen Bar dopo essere stato licenziato ha consegnato un affidavit alla Corte Suprema, che ha dato molti segni di non sopportare Netanyahu e ha rimandato il licenziamento di bar. Netanyahu consegnerà un documento contrario giovedì. Quello di Bar è una dichiarazione di sfiducia e di accusa personale e politica cui già l’amplissimo fronte anti Bibi nel mondo si affretta a affiancarsi: si sa, Bibi è accusato di tutto, il contesto pacifista internazionale ne fa una figura che rifiuta di concludere la guerra per istinto bellicistico e opportunismo. Gli si contesta sempre una scarsa sensibilità verso i rapiti: ma la verità è che Netanyahu cerca, noncurante del governo dato che una volta senza problemi si è già giuocato l’uscita di Ben Gvir, di combattere Hamas fino alla vittoria mentre cerca con tutte le forze disponibili di recuperare i rapiti. Hamas non si accuccerebbe, non restituirebbe i rapiti di fronte a un cedimento, ma preparerebbe il prossimo 7 ottobre. Di fatto Bibi ha tolto la fiducia a Bar quando è stato chiaro che peggio non avrebbe potuto affrontare il 7 di ottobre, senza capire, reagire, avvertire. Lui stesso l’ha dichiarato.
I rapporti si sono fatti sempre più tesi a causa di rivelazioni alla stampa di cui i due uffici si sono accusati, Bar ha fatto le mosse di attacco aspettandosi il licenziamento, ha approvato un’inchiesta, in cui il PM non è coinvolto, sul rapporto fra impiegati dell’ufficio del primo ministro e il Qatar,e poi ha accusato Netanyahu di volerlo licenziare per questo, mentre la decisione era presa da tempo. Bar dichiara nel suo affidavit anche di avere avvertito Netanyahu alle 5,15 di mattina dei movimenti sul confine; afferma di aver ricevuto dal Premier la richiesta di coprire la richiesta di non recarsi tre volte a settimana al processo a lui intentato; lamenta che Bibi gli abbia chiesto di sorvegliare cittadini coinvolti nelle manifestazioni di protesta contro di lui, facendo così dello Shabbah, dice Bar, una polizia personale. Sono accuse che fanno scudo a Bar che certo soffre per le spaventose responsabilità nel 7 di ottobre. Ha capito che la sua personale frustrazione era coperta dalla rabbia politica di Ehud Barak, Carmi Gilon , Avichai Mandelbit... alta nomenclatura, esempi di centinaia che con la stessa determinazione accusano Netanyahu di essere un dittatore e ne chiedono la rimozione.
Netanyahu ha dichiarato che tutte le bugie verranno smontate: Bar, dice, ha fallito al cento per cento nel compito di avvertire lui e Gallant, la telefonata arrivò solo alle 6,15. Bar, si sostiene, ha detto che Bibi voleva cacciarlo molto prima del Qatargate; e Netanyahu chiese non di aiutarlo a posporre il processo, ma dopo le continue minacce di morte e i due missili sulla sua casa, di spostarlo in un luogo sicuro. Bar accusa Netanyahu di averlo voluto usare nello studiare le mosse dei leader della piazza, ma si sa che lo Shabbach ha sempre indagato i movimenti di destra come di sinistra, al tempo che Carmi Gilon era capo dello Shabbach Rabin fu ucciso da un fanatico di destra, nessuno vuol tornare a quegli errori fatali. Lo squillo di tromba di Bar comunque avrà l’eco che si aspetta, Netanyahu ancora deve stringere i denti sui sette fronti di cui non lascia la resa. Trump ieri gli ha telefonato per dirgli che gli USA sono con Israele: chissà se intendeva sull’Iran. Questo è quello che deve importare veramente a chi tiene a Israele

Il Giornale, 12 aprile 2025
“In ogni generazione qualcuno si leva per la nostra distruzione, ma Dio e lo spirito dei nostri combattenti ci salverà sempre”. Ripete anche questo il “seder” di Pasqua, Pesach, ovvero uno dei riti più antichi della storia della civiltà, in mezzo a mille altre verità sempiterne: ricorda, ricorda sempre chi eri per sapere chi sei, fummo schiavi e oggi e come se tu fossi uscito dall’Egitto. “Figli della libertà”, dobbiamo comportarci senza perdere mai di vista ciò che fummo, ripete il testo della Agadà, in cui si ripercorre la storia di come Mosè portò il popolo ebraico fuori dall’Egitto verso la libertà pratica e concettuale non solo dei suoi, ma del mondo. La libertà, l’etica, le società democratiche su di esse basate, definiranno nuovi confini grazie alla Torah, la Bibbia, quando Mosè nel deserto riceverà i dieci comandamenti dei quali oggi viviamo. Stasera intorno al tavolo le famiglie ebraiche portano con sé dolore e aspettative insieme all’ immensa determinazione a superare anche questa: “Abbiamo passato il Faraone, supereremo anche questa”, dice il testo mentre si spezza l’azzima che ricorda come il mare si aprì per il più folle dei miracoli, e sommerse l’esercito egiziano. E tutti gli ebrei del mondo con gli uomini di buona volontà avvertiranno il vuoto e pregheranno insieme per il ritorno dei rapiti e per i soldati che a Gaza combattono per loro e per sgominare definitivamente un nemico il cui odio per gli ebrei non ha limite in nessuna trattativa.
Mentre si bevono i quattro bicchieri del rito, da una parte si pensa alla odierna, nuovissima trattativa fatale fra gli americani e gli iraniani che dovrebbe, forse, portare a un accordo per la distruzione delle strutture nucleari, oppure allo scontro inevitabile, se il potere messianico e brutale degli Ayatollah non abbandona il disegno ripetuto fino all’ossessione di distruggere Israele e il mondo occidentale. Dall’altra parte si tenta, sempre nelle ore di Pesach, di bloccare una mortale strada di collisione con Erdogan, il premier turco che adesso cerca di una base fissa in Siria per prendere possesso di una terrazza che lo doti di un inusitato potere di minaccia su Israele. La guerra, anche se gli Hezbollah e i Houthi sono indeboliti, è tuttora, a Pesach,nel calendario ebraico mentre si disegna la speranza di un mondo di rinascita. Gli Israeliani fra assassinati il 7 di ottobre e soldati uccisi hanno superato i duemila morti in un anno e mezzo, una cifra enorme per dieci milioni di abitanti. Le storie di incredibile valore che ogni giorno vengono alla superficie, di ragazzi che hanno scritto ai genitori o alla loro amata lettere in cui la consapevolezza, a volte la certezza finale, di rischiare la vita è unita alla volontà invincibile di non volere rinunciare a questo onore, è un unicum nella storia moderna.
Il rifiuto che essi combattono non è solo odio per Israele, ma per il mondo ebraico nel suo insieme: l’aggressione dell’antisemitismo politico rappresenta un pericolo di vita per tutti gli ebrei, ma oggi, al contrario che nel passato, ha di fronte i giovani leoni d’Israele. Il 96 per cento degli ebrei del mondo, scrive Nathan Sharansky, celebrano il seder di Pesach seduti al tavolo della tradizione nonostante la guerra. Sfidano la tempesta. Non rinunceranno mai. Abbiamo superato il faraone, supereremo anche questa.

Il Giornale, 10 aprile 2025
Buona parte dei media l’ha preso per una scena su cui fare un po' di spirito: Netanyahu si aspettava una grande accoglienza da parte di Trump dopo che l’aveva invitato a casa sua, e poi se non preso in giro, è stato messo in sottordine. Non gli ha dato lo sconto sui dazi, ha detto a un tratto che avrebbe cercato un accordo con l’Iran, l’ha lasciato secco. Quanto sia sbagliata questa valutazione l’hanno capito molto meglio dei media occidentali gli Ayatollah, che negli ultimi giorni hanno elevato misure di difesa armata in tutto il Paese, hanno dato interviste e fornito rifiuti a colloqui diretti, hanno minacciato di rappresaglie i Paesi arabi che forniscano basi di attacco contro Teheran, hanno cercato per la prima volta di mandare missili Jamal 69 che possono raggiungere l’Europa ai suoi proxi iracheni proprio mentre gli americani gli impongono il disarmo. Intanto, nella base in mezzo all’Oceano di Diego Garcia i bombers 6B sono stati parcheggiati con altre armi letali di lunga portata. Gli iraniani dal 2015, quando furono ripristinate le sanzioni mentre si aboliva l’accordo con Obama, sanno che è grazie al fatto che Netanyahu ha messo in testa al suo lavoro di salvaguardia dello Stato d’Israele la distruzione del loro programma nucleare; adesso la visita di Netanyahu alla Casa Bianca, tre giorni or sono, può essere il possibile epilogo della vicenda alla vigilia dell’assemblaggio della bomba, ormai agli sgoccioli.
Netanyahu e Trump sanno ambedue che la decisione iraniana di considerare la distruzione di Israele un caposaldo, non è dovuta né a biasimo né a odio personale: è la fede sciita che disegna la guerra all’Occidente, alla civiltà e alla cultura giudaico cristiana, come un imprescindibile dovere dello Stato Islamico, che prepara la redenzione del mondo tramite il dominio e la venuta del Mahdi. Di questo fa parte anche la costruzione di un futuro da shahid, che accomuna gli sciiti ai sunniti. Si uccide per Allah, si muore per Allah a migliaia, a milioni. Trump non ha sorpreso Netanyahu annunciando che vuole trattare, che vanitosa fantasia è questa: chi non lo farebbe fra i primi ministri di un Paese occidentale? La guerra, per il presidente Trump in particolare che lo aveva messo nel programma elettorale, è la seconda opzione. Tuttavia lo scopo è chiaro: l’Iran non può, non deve, non sarà nucleare. E deve accettare, dice Trump,le nostre proposte altrimenti pagherà un prezzo molto alto, “hell to pay”. Chi ha voluto leggere stupore nell’atteggiamento di Netanyahu seduto compostamente, dimentica che i due hanno parlato per ore, che Netanyahu non aveva ragione di obiettare alcunché, era d’accordo e l’ha ripetuto uscendo. Un presidente americano per la prima volta ha annunciato che userà la forza se Khamenei non ci sta: sabato, fra due giorni soltanto ci saranno colloqui in cui si vedrà se l’Iran vuol menare il can per l’aia per costruire la bomba. Ma tutti conoscono ormai l’Iran, Trump sa che non ci si può fidare si mezze promesse, che l’unico modo di evitare a Israele, all’Europa, agli USA, un chiaro e presente rischio atomico, è privarla degli strumenti per riprodurlo. L’Iran non ha mezzi termini, e l’unica strada è: o che consegni l’uranio e le strutture, o bombardarli. Non c’è esperto di Iran che non chiarisca che basta lasciare un capo della corda in mano agli ayatollah, perché sia sicura poi un’esplosione.
Trump ha parlato, Bibi l’ha ascoltato e certo gli ha anche descritto un Medio Oriente diverso, in cui proprio ieri gli Hezbollah offrono di consegnare le armi, Gaza e la Siria sono irriconoscibili, gli Houty sono a pezzi. La pace è in vista, ma l’Iran non può essere atomico. I due concordano. Oh, e I dazi? Sarebbe stato davvero strano che Trump il campione del business internazionale al primo ministro che gli chiedeva una sconto avesse detto di “Sì”: che avrebbe fatto allora, dopo, con tutti gli altri in coda dopo Israele? Doveva mostrare loro che nello shuk si fanno sconti solo a qualcuno? Non si fa così.